Nella bottega di Giuseppe
La Chiesa intera riconosce in san Giuseppe il suo protettore e patrono. Nel corso dei secoli si è parlato di lui, sottolineando i vari aspetti della sua vita, che lo mostrano costantemente fedele alla missione ricevuta da Dio. È per questo che, da molti anni, mi piace invocarlo con un titolo che mi sta a cuore: Padre e signore nostro.
San Giuseppe è realmente un padre e signore che protegge e accompagna nel cammino terreno coloro che lo venerano, come protesse e accompagnò Gesù che cresceva e diveniva adulto. Dall'intimità con lui si scopre inoltre che il santo Patriarca è maestro di vita interiore: ci insegna infatti a conoscere Gesù, a convivere con Lui, a sentirci parte della famiglia di Dio. San Giuseppe ci insegna tutto ciò apparendoci così come fu: un uomo comune, un padre di famiglia, un lavoratore che si guadagna la vita con lo sforzo delle sue mani. E anche questo fatto ha per noi un significato che è motivo di riflessione e di gioia.
Celebrando oggi la sua festa, desidero rievocare la sua figura rifacendomi a quello che di lui ci dice il Vangelo, in modo da scoprire meglio quello che Dio, per mezzo della vita semplice dello sposo di Maria, ci vuol far conoscere.
Sia Matteo che Luca ci parlano di san Giuseppe come di un uomo che discende da una stirpe illustre: quella di Davide e Salomone, i re di Israele. I particolari storici di questa ascendenza sono piuttosto incerti: delle due genealogie riportate dagli evangelisti, non sappiamo quale corrisponda a Maria, Madre di Gesù secondo la carne, e quale a Giuseppe, padre di Gesù secondo la legge degli ebrei. Non sappiamo nemmeno se la città natale di Giuseppe sia Betlemme, dove si recò per il censimento, o Nazaret, dove viveva e lavorava.
Sappiamo invece che non era ricco: era un lavoratore come milioni di uomini in tutto il mondo; esercitava il mestiere faticoso e umile che Dio, prendendo la nostra carne e volendo vivere per trent'anni come uno qualunque tra di noi, aveva scelto per sé.
La Sacra Scrittura dice che Giuseppe era artigiano. Alcuni Padri aggiungono che fu falegname. San Giustino, parlando della vita di lavoro di Gesù, dice che fabbricava aratri e gioghi (cfr SAN GIUSTINO, Dialogus cum Tryphone, 88, 2, 8 [PG 6, 687]); forse per queste parole sant'Isidoro di Siviglia conclude che Giuseppe era fabbro. Comunque era un operaio che lavorava al servizio dei suoi concittadini, con un'abilità manuale derivante da lunghi anni di sforzi e di sudore.
Dai racconti evangelici risalta la grande personalità umana di Giuseppe: in nessuna circostanza si dimostra un debole o un pavido dinanzi alla vita; al contrario, sa affrontare i problemi, supera le situazioni difficili, accetta con responsabilità e iniziativa i compiti che gli vengono affidati.
Non sono d'accordo con il modo tradizionale di raffigurare san Giuseppe come un vecchio, anche se riconosco la buona intenzione di dare risalto alla verginità perpetua di Maria. Io lo immagino giovane, forte, forse con qualche anno più della Madonna, ma nella pienezza dell'età e delle forze fisiche.
Per praticare la virtù della castità non c'è bisogno di attendere la vecchiaia o la perdita del vigore. La purezza nasce dall'amore, e non sono un ostacolo per l'amore puro la forza e la gioia della giovinezza. Erano giovani il cuore e il corpo di Giuseppe quando contrasse matrimonio con Maria, quando conobbe il mistero della sua Maternità divina, quando le visse accanto rispettando quell'integrità che Dio affidava al mondo come uno dei segni della sua venuta tra gli uomini. Chi non è capace di capire tale amore vuol dire che sa ben poco del vero amore e che ignora totalmente il senso cristiano della castità.
Giuseppe, dunque, era un artigiano della Galilea, un uomo come tanti altri. E che cosa può attendersi dalla vita l'abitante di un villaggio sperduto come Nazaret? Lavoro e null'altro che lavoro; tutti i giorni, sempre con lo stesso sforzo. Poi, terminata la giornata, una casa povera e piccola, per ristorare le forze e ricominciare a lavorare il giorno dopo. Ma, in ebraico, il nome Giuseppe significa Dio aggiungerà. Dio aggiunge alla vita santa di coloro che compiono la sua volontà una dimensione insospettata: quella veramente importante, quella che dà valore a tutte le cose, quella divina. Alla vita umile e santa di Giuseppe, Dio aggiunse — mi si permetta di parlare così — la vita della Vergine Maria e quella di Gesù, Nostro Signore. Dio non si fa battere in generosità. Giuseppe poteva far sue le parole di Maria, sua sposa: Quia fecit mihi magna qui potens est, grandi cose ha fatto in me l'Onnipotente, quia respexit humilitatem, perché ha guardato la mia piccolezza (cfr Lc 1, 48-49). Giuseppe era infatti un uomo comune su cui Dio fece affidamento per operare cose grandi. Seppe vivere come voleva il Signore in tutti i singoli eventi che composero la sua vita. Per questo la Sacra Scrittura loda Giuseppe affermando che era giusto (cfr Mt 1, 19). E, nella lingua ebraica, giusto vuoi dire pio, servitore irreprensibile di Dio, esecutore della volontà divina (cfr Gn 7, 1; 18, 23-32; Ez 18, 5 ss.; Pro 12, 10); significa anche buono e caritatevole verso il prossimo (cfr Tb 7, 6; 9, 6). In una parola, il giusto è colui che ama Dio e dimostra questo amore osservando i comandamenti e orientando la vita intera al servizio degli uomini, propri fratelli.
La giustizia non consiste nella semplice sottomissione a una regola: la rettitudine deve nascere dal di dentro, deve essere profonda, vitale, perché il giusto vive della fede (Ab 2, 4). Vivere della fede: queste parole, che saranno poi tanto spesso tema di meditazione per l'apostolo Paolo, le vediamo realizzate perfettamente in san Giuseppe. Egli non compie la volontà di Dio esteriormente, formalisticamente, ma in modo spontaneo e profondo. La legge che osservava ogni ebreo praticante non era per lui soltanto un codice o una fredda raccolta di precetti: era l'espressione della volontà del Dio vivo. Ed è per questo che Giuseppe seppe riconoscere la voce del Signore quando essa gli si manifestò inattesa e sorprendente.
La storia del santo Patriarca, infatti, è quella di una vita semplice, ma non certo facile. Dopo momenti angosciosi, egli sa che il Figlio di Maria è stato concepito per opera dello Spirito Santo. E quel Bambino, Figlio di Dio, discendente di Davide secondo la carne, nasce in una grotta. Gli angeli ne festeggiano la nascita e personalità di terre lontane vengono ad adorarlo; ma il re di Giudea vuole la sua morte, ed è necessario fuggire. Il Figlio di Dio è apparentemente un bimbo inerme che andrà a vivere in Egitto.
Narrandoci queste scene, Matteo mette costantemente in risalto la fedeltà di Giuseppe, che ubbidiva ai comandi di Dio senza tentennamenti, anche se a volte il senso di quei comandi gli doveva sembrare oscuro, oppure non riusciva a coglierne il nesso con il resto dei piani divini.
In molte occasioni i Padri della Chiesa e gli autori spirituali hanno fatto notare la fermezza della fede di Giuseppe. Riferendosi alle parole dell'angelo che gli ordina di fuggire da Erode e di rifugiarsi in Egitto (cfr Mt 2, 13), il Crisostomo commenta: Al sentire ciò, Giuseppe non si scandalizza né dice: « Mi sembra un enigma; tu stesso mi facevi sapere or non è molto che Egli avrebbe salvato il suo popolo, ed ecco che ora non è capace di salvare se stesso, anzi, dobbiamo fuggire, intraprendere un viaggio e subire un lungo esilio: ciò è contrario alla tua promessa ». Giuseppe non ragiona così, perché è uomo fedele. Non domanda nemmeno il tempo del ritorno, nonostante fosse rimasto indeterminato, giacché l'angelo gli aveva detto: « Resta là — in Egitto — finché te lo dirò ». Non per questo si sente in difficoltà, ma obbedisce, crede e sopporta con gioia tutte le prove (SAN GIOVANNI CRISOSTOMO, In Matthaeum homiliae, 8, 3 [PG 57, 85]).
La fede di Giuseppe non vacilla, la sua obbedienza è sempre precisa e immediata. Per comprendere meglio la lezione del santo Patriarca, è opportuno considerare che la sua fede è attiva e che la sua docilità non ha nulla dell'obbedienza di chi si lascia trascinare dagli eventi. La fede cristiana, infatti, è quanto di più opposto ci sia al conformismo, all'inerzia interiore.
Giuseppe si abbandonò senza riserve all'azione di Dio, ma non rifiutò mai di riflettere sui fatti, e in tal modo ottenne dal Signore quel grado di intelligenza delle opere di Dio che costituisce la vera sapienza. E così apprese a poco a poco che i disegni soprannaturali hanno una coerenza divina, sovente in contraddizione con i piani umani.
Nelle diverse circostanze della sua vita, il Patriarca non rinuncia a pensare, né a far uso della sua responsabilità. Anzi, colloca al servizio della fede tutta la sua esperienza umana. Di ritorno dall'Egitto, avendo saputo che era re della Giudea Archelao al posto di suo padre Erode, ebbe paura di andarvi (Mt 2, 22). Ha imparato a muoversi nell'ambito del piano divino e, a conferma che il suo presentimento corrisponde effettivamente alla volontà di Dio, riceve l'indicazione di riparare in Galilea.
Tale fu la fede di Giuseppe: piena, fiduciosa, integra; una fede che si manifesta con la dedizione efficace alla volontà di Dio, con l'obbedienza intelligente. E, assieme alla fede, ecco la carità, l'amore. La sua fede si fonde con l'amore: l'amore per Dio che compiva le promesse fatte ad Abramo, a Giacobbe, a Mosé; l'affetto coniugale per Maria; l'affetto paterno per Gesù. Fede e amore si fondono nella speranza della grande missione che Dio, servendosi proprio di lui — un falegname della Galilea — cominciava a realizzare nel mondo: la redenzione degli uomini.
Fede, amore, speranza: sono i cardini della vita di Giuseppe, come lo sono di ogni vita cristiana. La dedizione di Giuseppe risulta da questo intrecciarsi di amore fedele, di fede amorosa, di speranza fiduciosa. La sua festa è dunque un'ottima occasione per rinnovare il nostro impegno di fedeltà alla vocazione di cristiani, che il Signore ha concesso a ognuno di noi.
Quando si desidera sinceramente vivere di fede, di amore e di speranza, rinnovare il proprio impegno non è come riprendere una cosa lasciata in disuso. Quando c'è fede, amore e speranza, rinnovarsi significa — nonostante gli errori personali, le cadute, le debolezze — voler restare nelle mani di Dio, confermare un cammino di fedeltà. Rinnovare l'impegno — ripeto — è rinnovare la fedeltà a quanto il Signore vuole da noi: che amiamo con i fatti.
L'amore ha necessariamente le sue manifestazioni caratteristiche. A volte si parla dell'amore come se fosse un impulso verso la propria soddisfazione o una semplice risorsa per completare egoisticamente la propria personalità. Ma non è così: l'amore vero è un uscire da se stessi, è un darsi. L'amore porta con sé la gioia, ma è una gioia con le radici a forma di croce. Finché siamo sulla terra, finché non è raggiunta la pienezza della vita futura, non vi può essere amore vero senza esperienza di sacrificio, di dolore. Un dolore che si gusta, che è amabile, che è fonte di intimo gaudio; ciò nondimeno è un dolore reale, perché si tratta di vincere il proprio egoismo e di prendere l'Amore come regola di tutte e singole le nostre azioni.
Le opere dell'Amore sono sempre grandi, benché si tratti di cose in apparenza piccole. Dio si è avvicinato a noi, creature povere, e ci ha detto che ci ama: Le mie delizie sono tra i figli degli uomini (Pro 8, 31). Il Signore ci fa conoscere che tutto ha importanza: sia le azioni che ai nostri occhi appaiono grandi, sia quelle che invece giudichiamo di poco valore. Nulla va perduto. Nessun uomo è disprezzato da Dio. Ognuno è chiamato a partecipare al regno dei Cieli per mezzo del compimento della propria vocazione: nel suo focolare, nella sua professione o mestiere, negli obblighi corrispondenti al proprio stato, nel compimento dei doveri civili, nell'esercizio dei propri diritti.
È quanto ci insegna la vita di san Giuseppe: semplice, normale, comune, fatta di anni di lavoro uguale, di giorni che si susseguono con apparente monotonia. Ho pensato tutto ciò molte volte meditando la figura di Giuseppe, ed è questa una delle ragioni della mia speciale devozione per lui.
Quando Sua Santità Giovanni XXIII annunziò, nel discorso di chiusura della prima sessione del Concilio Vaticano II, che nel canone della Messa sarebbe stato introdotto il nome di Giuseppe, un'alta personalità ecclesiastica si affrettò a telefonarmi per dirmi: « Rallegramenti! A quell'annunzio ho pensato subito a lei, alla gioia che ne avrebbe avuto ». Ed era così, perché nell'assemblea conciliare, che rappresenta la Chiesa intera riunita nello Spirito Santo, si proclamava l'immenso valore soprannaturale della vita di Giuseppe, il valore di una vita semplice di lavoro vissuta alla presenza di Dio in perfetto compimento della divina volontà.
Per descrivere lo spirito dell'Opus Dei, l'istituzione alla quale ho dedicato la mia vita, ho detto che esso poggia e fa perno sul lavoro ordinario, sul lavoro professionale esercitato in mezzo al mondo. La vocazione divina ci affida una missione, ci invita a partecipare al compimento della Chiesa, a essere testimoni di Cristo dinanzi agli uomini, nostri uguali, e a portare a Dio tutte le cose.
La vocazione accende in noi una luce che ci fa riconoscere il senso della nostra esistenza. La vocazione ci convince, con la luminosità della fede, del perché della nostra realtà terrena. Tutta la nostra vita, quella presente, quella passata e quella che verrà, acquista un nuovo rilievo, una profondità mai prima immaginata. Tutti gli eventi e tutte le circostanze occupano ora il loro vero posto: comprendiamo dove il Signore vuole condurci e ci sentiamo come trascinati da questa missione che Egli ci affida.
Dio ci tira fuori dalle tenebre della nostra ignoranza, dal nostro brancolare in mezzo ai mille casi della storia, e ci chiama con voce potente, come un giorno chiamò Pietro e Andrea: Seguitemi, vi foro pescatori di uomini (Mt 4, 19), qualunque sia il posto che occupiamo nel mondo.
Chi vive della fede incontrerà difficoltà e lotta, dolore e anche amarezza, mai però lo scoraggiamento o l'angoscia, perché sa che la sua vita è utile, sa il perché della sua esistenza terrena: Io sono la luce del mondo; chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita (Gv 8,12).
Per meritare questa luce di Dio è necessario amare, avere l'umiltà di riconoscere il nostro bisogno d'essere salvati e dire con Pietro: Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio (Gv 6, 69-70). Se ci decidiamo ad agire così, se lasciamo entrare nel nostro cuore la chiamata di Dio, potremo sinceramente dire che non camminiamo nelle tenebre, perché al di sopra delle nostre miserie e dei nostri personali difetti brilla la luce di Dio, come il sole brilla al di sopra della tempesta.
La fede e la vocazione cristiana impregnano non una parte, ma tutta la nostra esistenza. I rapporti con Dio sono necessariamente rapporti di dedizione e assumono un senso di totalità. L'atteggiamento dell'uomo di fede è di guardare alla vita, in tutte le sue dimensioni, con una prospettiva nuova: quella che ci è data da Dio.
Voi che oggi celebrate con me la festa di san Giuseppe, siete persone dedite al lavoro in varie attività professionali, formate vari focolari e appartenete a diverse nazioni, razze e lingue. Vi siete educati nelle aule universitarie o nelle fabbriche, avete esercitato per anni la vostra professione, avete intessuto rapporti di lavoro e di amicizia con i vostri compagni, avete partecipato alla soluzione dei problemi collettivi delle vostre imprese e della vostra società.
Ebbene, vi ricordo ancora una volta che tutto ciò non è estraneo ai piani divini. La vostra vocazione umana è parte importante della vostra vocazione divina. Ecco il motivo per cui dovete santificarvi — collaborando al tempo stesso alla santificazione degli altri — santificando precisamente il vostro lavoro e il vostro ambiente, e cioè la professione o il mestiere che riempie i vostri giorni, che dà una fisionomia peculiare alla vostra personalità umana, che è il vostro modo di essere presenti nel mondo; e, assieme al lavoro, il focolare, la vostra famiglia e, infine, la nazione ove siete nati e che amate.
Il lavoro accompagna inevitabilmente la vita dell'uomo sulla terra. Assieme ad esso compaiono lo sforzo, la fatica, la stanchezza, come manifestazione del dolore e della lotta che fanno parte della nostra esistenza attuale e che sono segni della realtà del peccato e del bisogno di redenzione. Ma il lavoro non è in se stesso una pena, né una maledizione, né un castigo: coloro che parlano così non hanno letto bene la Sacra Scrittura. È tempo che i cristiani dicano ben forte che il lavoro è un dono di Dio e che non ha alcun senso dividere gli uomini in categorie diverse secondo il tipo di lavoro; è testimonianza della dignità dell'uomo, del suo dominio sulla creazione; promuove lo sviluppo della sua personalità, è vincolo di unione con gli altri uomini, fonte di risorse per sostenere la propria famiglia, mezzo per contribuire al miglioramento della società in cui si vive e al progresso di tutta l'umanità.
Per il cristiano, queste prospettive si dilatano. Il lavoro appare infatti come partecipazione all'opera creatrice di Dio, il quale, avendo creato l'uomo, gli diede la sua benedizione: Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra (Gn 1, 28). E inoltre il lavoro, essendo stato assunto da Cristo, diventa attività redenta e redentrice: non solo è l'ambito nel quale l'uomo vive, ma mezzo e strada di santità, realtà santificabile e santificatrice.
Non bisogna pertanto dimenticare che tutta la dignità del lavoro è fondata sull'Amore. Il grande privilegio dell'uomo è di poter amare, trascendendo così l'effimero e il transitorio. L'uomo può amare le altre creature, può dire un tu e un io pieni di significato. E può amare Dio, che ci apre le porte del Cielo, ci costituisce membri della sua famiglia, ci autorizza a dar del tu anche a Lui, a parlargli faccia a faccia.
L'uomo, pertanto, non deve limitarsi a fare delle cose, a costruire oggetti. Il lavoro nasce dall'amore, manifesta l'amore, è ordinato all'amore. Riconosciamo Dio non solo nello spettacolo della natura, ma anche nell'esperienza del nostro lavoro, del nostro sforzo. Allora il lavoro è preghiera, rendimento di grazie, perché sappiamo di essere stati messi sulla terra da Dio, di essere amati da Lui, eredi delle sue promesse. È giusto che ci si dica: Sia dunque che mangiate, sia che beviate, sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per gloria di Dio (1 Cor 10,31).
Il lavoro è anche apostolato, occasione di servizio agli uomini per far loro conoscere Cristo e condurli al Padre, come conseguenza della Carità che lo Spirito Santo infonde nelle anime. Tra le indicazioni di san Paolo agli Efesini perché si manifesti in loro il cambiamento prodotto dalla conversione, dalla loro chiamata al cristianesimo, vi è questa: Chi è avvezzo a rubare non rubi più, anzi si dia da fare lavorando onestamente con le proprie mani, per farne parte a chi si trova in necessità (Ef 4, 28).
Gli uomini hanno bisogno del pane della terra, che sostiene la loro vita, e anche del pane del Cielo che illumina e dà calore ai loro cuori. Con il vostro lavoro e con le iniziative che si promuovono a partire da esso, con le amicizie e le relazioni che suscita, voi potete e dovete mettere in pratica quel precetto apostolico.
Quando si lavora con questo spirito, la nostra vita, pur nei limiti propri della condizione terrena, sarà un anticipo della gloria del Cielo, di quella comunità con Dio e con i santi nella quale regneranno soltanto l'amore, il dono di sé, la fedeltà, l'amicizia, la gioia. Nella vostra attività professionale ordinaria e quotidiana, troverete il materiale — reale, solido, di buona qualità — per realizzare tutta la vita cristiana, per rendere attuale la grazia che ci viene da Cristo.
In questo vostro lavoro professionale, consapevolmente svolto di fronte a Dio, verranno esercitate la fede, la speranza e la carità. Le diverse situazioni, rapporti e problemi che il vostro lavoro comporta, alimenteranno la vostra preghiera. L'impegno di portare a compimento il vostro dovere ordinario sarà l'occasione per sentire la Croce, che è essenziale nella vita di un cristiano. L'esperienza della vostra debolezza e gli insuccessi — immancabili in ogni sforzo umano — vi daranno più realismo, più umiltà, più comprensione per gli altri. I successi e le gioie saranno un invito alla gratitudine e vi faranno pensare che non vivete per voi stessi, ma al servizio degli altri e di Dio.
Per raggiungere questo stile di vita e santificare la professione, è necessario anzitutto lavorare bene, con serietà umana e soprannaturale. A questo punto voglio ricordarvi, per contrasto, un vecchio racconto tratto dai vangeli apocrifi: Il padre di Gesù, che era falegname, fabbricava aratri e gioghi. Una volta gli fu incaricato un letto per una certa persona di buona posizione. Ma, intrapreso il lavoro, accadde che una delle assi riuscisse più corta dell'altra, e Giuseppe non sapeva che fare. Allora Gesù bambino disse a suo padre: colloca in terra le due assi e livellale a una delle estremità. E così fece Giuseppe. Gesù si mise dall'altra parte, prese l'asse più corta e la tirò, finché raggiunse la lunghezza dell'altra. Giuseppe, suo padre, rimase ammirato del prodigio e coprì il bambino di baci e di abbracci, dicendo: « Me felice, perché Dio mi ha dato questo bambino » (Vangelo dell'infanzia, falsamente attribuito all'apostolo Tommaso, n. 13). No, Giuseppe non ringraziava Dio per queste cose; il suo lavoro non poteva essere di quel tipo. San Giuseppe non era l'uomo dalle soluzioni facili e miracolistiche; era uomo perseverante, tenace e — all'occorrenza — ingegnoso.
Il cristiano sa che Dio fa miracoli: li ha compiuti secoli fa, ha continuato a compierli e li compie tuttora, perché la mano del Signore non è troppo corta (Is 59, 1). Ma i miracoli sono una manifestazione della potenza salvifica di Dio, e non un espediente per risolvere le conseguenze della nostra inettitudine o per agevolare la nostra comodità. Il miracolo che il Signore vi chiede è la perseveranza nella vostra vocazione cristiana e divina e la santificazione del lavoro d'ogni giorno: il miracolo di trasformare la prosa quotidiana in versi epici, in virtù dell'amore con cui svolgete la vostra occupazione abituale. È là che Dio vi attende, chiamandovi a essere anime dotate di senso di responsabilità, ricche di zelo apostolico e professionalmente competenti.
Pertanto, volendo dare un motto al vostro lavoro, potrei indicarvi questo: Per servire, servire. In primo luogo, infatti, per realizzare le cose bisogna saperle condurre a termine. Non credo alla rettitudine di intenzione di chi non si sforza di ottenere la competenza necessaria per svolgere debitamente i compiti che gli sono affidati. Non basta voler fare il bene; è necessario saperlo fare. E, se il nostro volere è sincero, deve tradursi nell'impegno di impiegare i mezzi adeguati per compiere le cose fino in fondo, con perfezione umana.
Ma anche questo servizio umano, questa idoneità che potremmo chiamare tecnica, questo saper fare il proprio mestiere, deve essere dotato di una caratteristica che fu fondamentale nel lavoro di Giuseppe e che tale dovrebbe essere anche per ogni cristiano: lo spirito di servizio, il desiderio di lavorare per contribuire al bene comune. Il lavoro di Giuseppe non tendeva all'affermazione di sé, anche se effettivamente la dedizione a una vita di lavoro gli aveva dato una personalità matura e spiccata. Il Patriarca lavorava con la consapevolezza di compiere la volontà di Dio, pensando al bene dei suoi — Gesù e Maria — e avendo presente il bene di tutti gli abitanti della piccola Nazaret.
A Nazaret Giuseppe doveva essere uno dei pochi artigiani del villaggio, o forse l'unico. Probabilmente era falegname. Ma, come accade nei piccoli paesi, doveva essere capace di fare anche altre cose: rimettere in funzione il mulino, o riparare prima dell'inverno le crepe di un tetto. Giuseppe, indubbiamente, con un lavoro ben fatto, risolveva le difficoltà di molta gente. La sua attività professionale era orientata al servizio degli altri, a rendere più gradevole la vita delle famiglie del villaggio; ed era certamente accompagnata da un sorriso, da una parola opportuna, da uno di quei commenti fatti di sfuggita, ma che servono a ridare la fede e la gioia a chi sta per perderle.
In certe occasioni, lavorando per persone più povere di lui, immaginiamo Giuseppe che accetta un compenso simbolico, quanto basta a lasciare l'altra persona con la soddisfazione di aver pagato. Ma normalmente Giuseppe si sarà fatto pagare il giusto prezzo, né più né meno. Avrà saputo esigere, secondo giustizia, quanto gli era dovuto, poiché la fedeltà a Dio non richiede la rinuncia a diritti che in realtà sono doveri: e Giuseppe era tenuto a esigere il giusto, perché con il compenso del suo lavoro doveva sostenere la Famiglia che Dio gli aveva affidato. L'esigere un diritto non deve essere però frutto di egoismo individualista. Non si ama la giustizia se non si desidera di vederla compiuta in favore degli altri. Nemmeno è lecito chiudersi in una religiosità comoda, che dimentica i bisogni del prossimo. Chi desidera essere giusto agli occhi di Dio, si sforza di promuovere concretamente la giustizia tra gli uomini. E non soltanto per il buon motivo di non occasionare ingiuria al nome di Dio, ma anche perché essere cristiani significa fare proprie tutte le nobili aspirazioni umane. Parafrasando una nota frase dell'apostolo Giovanni (cfr 1 Gv 4, 20), si può dire che chi afferma d'essere giusto con Dio, ma non lo è con gli uomini, è menzognero, e la verità non dimora in lui.
Io, come tutti i cristiani che hanno vissuto quel momento, accolsi con emozione e con gioa, anni fa, l'istituzione della festività liturgica di san Giuseppe Lavoratore. Questa festa, che è la canonizzazione del valore divino del lavoro, dimostra che la Chiesa, nella sua vita sociale e pubblica, si fa eco di quelle verità centrali del Vangelo che Dio vuole siano meditate in modo speciale in questa nostra epoca.
Di questo tema abbiamo parlato molto in altre occasioni, ma permettetemi di insistere ancora una volta sulla naturalezza e la semplicità della vita di Giuseppe, che non si teneva distante dai suoi vicini e non innalzava barriere superflue.
Pertanto, anche se forse conviene farlo in taluni momenti o situazioni, generalmente non mi piace parlare di operai cattolici, di medici cattolici, di ingegneri cattolici e così via, come per indicare una specie all'interno di un determinato genere, come se i cattolici formassero un gruppetto separato dagli altri uomini, perché così si dà la sensazione che esista un fossato tra i cristiani e il resto dell'umanità. Rispetto l'opinione contraria, ma penso che sia molto più appropriato parlare di operai che sono cattolici o di cattolici che sono operai, di ingegneri che sono cattolici o di cattolici che sono ingegneri. Perché l'uomo che ha fede ed esercita una professione — intellettuale, tecnica o manuale — è e si sente unito agli altri, uguale agli altri, con gli stessi diritti e gli stessi obblighi, con lo stesso desiderio di migliorare e lo stesso slancio per affrontare e risolvere i problemi comuni. Il cattolico, accettando tutto ciò, saprà fare della sua vita quotidiana una testimonianza di fede, di speranza, di carità; testimonianza semplice e spontanea che, senza manifestazioni vistose, ma attraverso la coerenza di vita, dà rilievo alla costante presenza della Chiesa nel mondo: giacché tutti i cattolici sono essi stessi Chiesa, membri a pieno diritto dell'unico Popolo di Dio.
Già da tempo amo recitare una commovente invocazione a san Giuseppe che la Chiesa stessa ci propone tra le preghiere di preparazione alla Messa: O beato Giuseppe, uomo felice, a cui fu concesso che quel Dio, che molti re vollero vedere e non videro, sentire e non sentirono, non solo fosse da te visto e sentito, ma anche portato in braccio, baciato, vestito e custodito: prega per noi. Questa preghiera ci servirà a entrare nell'ultimo tema che voglio toccare: il rapporto intimo e affettuoso tra Giuseppe e Gesù.
La vita di Gesù fu per Giuseppe una continua scoperta della propria vocazione. Abbiamo già ricordato quei primi anni pieni di eventi in apparente contrasto: glorificazione e fuga, dignità dei Magi e povertà del presepio, canto di angeli e silenzio degli uomini. Quando giunge il momento di presentare il Bambino al tempio, Giuseppe, che porta la povera offerta di un paio di tortore, ascolta Simeone e Anna che proclamano che Gesù è il Messia. Suo padre e sua madre — ci narra san Luca — si stupivano delle cose che si dicevano di lui (Lc 2, 33). Più tardi, quando il Bambino rimane nel tempio senza che Maria e Giuseppe se ne avvedano, ritrovandolo dopo tre giorni, essi — è sempre Luca che narra — restarono meravigliati (Lc 2, 48).
Giuseppe resta sorpreso, si meraviglia. Dio gli ha rivelato i suoi piani ed egli cerca di capirli. Come ogni anima che vuole seguire Gesù da vicino, egli scopre subito che non è possibile camminare con passo stanco, che non si possono far le cose per abitudine. Dio, infatti, non accetta che ci si stabilizzi a un certo livello, che ci si adagi sulle posizioni raggiunte. Dio esige costantemente di più, e le sue vie non sono le nostre vie terrene. San Giuseppe, meglio di chiunque altro prima o dopo di lui, ha imparato da Gesù a essere pronto a riconoscere le meraviglie di Dio, a tenere aperti l'anima e il cuore.
Ma se Giuseppe ha appreso da Gesù a vivere in modo divino, oserei dire che, nell'umano, egli ha insegnato cose al Figlio di Dio. C'è qualcosa che non mi soddisfa nel titolo di padre putativo con cui sovente si designa Giuseppe, perché induce a pensare che i rapporti tra Giuseppe e Gesù fossero freddi ed esteriori. È vero che la nostra fede ci insegna che non era padre secondo la carne, ma non è questa l'unica paternità.
A Giuseppe — leggiamo in sant'Agostino — non solo si deve il nome di padre, ma anzi, gli si deve più che a nessun altro. E come era padre? Tanto più profondamente fu padre quanto più casta fu la sua paternità. Alcuni pensavano che fosse padre del Signore nostro Gesù Cristo allo stesso modo che sono padri coloro che generano secondo la carne e che non ricevono i loro figli soltanto come frutto di un legame spirituale. Per questo Luca dice: « Era figlio, come si credeva, di Giuseppe ». Perché dice "come si credeva"? Perché il pensiero e il giudizio umani si riferiscono a quel che suole accadere tra gli uomini. E il Signore non nacque dal seme di Giuseppe. Tuttavia, dalla Vergine Maria nacque un figlio alla carità e alla pietà di Giuseppe: ed era il Figlio di Dio (SANT’AGOSTINO, Sermo 51, 20 [PL 38, 351]).
Giuseppe amò Gesù come un padre ama suo figlio e gli si dedicò dandogli il meglio che poteva. Giuseppe, prendendo cura di quel Bambino che gli era stato affidato, fece di Gesù un artigiano: gli trasmise il suo mestiere. Gli abitanti di Nazaret parleranno pertanto di Gesù chiamandolo a volte l'artigiano, altre volte ilfiglio dell'artigiano (cfr Mc 6, 3; Mt 13, 55). Gesù lavorò nella bottega di Giuseppe e accanto a Giuseppe. Quali saranno state le doti di Giuseppe, come avrà operato in lui la grazia, da renderlo capace di portare a termine la maturazione umana del Figlio di Dio? Perché Gesù dovette rassomigliargli in molti aspetti: nel modo di lavorare, nei lineamenti del suo carattere, nell'accento. Il realismo di Gesù, il suo spirito di osservazione, il modo di sedere a mensa e spezzare il pane, il gusto per il discorso concreto, prendendo spunto dalle cose della vita ordinaria: tutto ciò è il riflesso dell'infanzia e della giovinezza di Gesù, e quindi pure il riflesso della dimestichezza con Giuseppe.
Non è possibile negare la grandezza del mistero: questo Gesù, che è uomo, che parla con l'inflessione di una determinata regione di Israele, che assomiglia a un artigiano di nome Giuseppe, costui è il Figlio di Dio. E chi può insegnare qualcosa a chi è Dio? Ma Gesù è realmente uomo e vive normalmente: prima come bambino, poi come ragazzo che comincia a dare una mano nella bottega di Giuseppe, finalmente come uomo maturo, nella pienezza dell'età. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini (Lc 2, 52).
Giuseppe è stato, nell'ordine naturale, maestro di Gesù: ha avuto con Lui rapporti quotidiani delicati e affettuosi, e se n'è preso cura con lieta abnegazione. Tutto ciò non è forse un buon motivo per considerare questo uomo giusto, questo santo Patriarca, in cui culmina la fede dell'Antica Alleanza, come Maestro di vita interiore? La vita interiore non è altro che il rapporto assiduo e intimo con Cristo, allo scopo di identificarci con Lui. E Giuseppe saprà dirci molte cose di Gesù. Pertanto, non tralasciate mai di frequentarlo: Andate da Giuseppe, raccomanda la tradizione cristiana con una frase dell'Antico Testamento(Gn 41, 55).
Maestro di vita interiore, lavoratore impegnato nel dovere quotidiano, servitore fedele di Dio in continuo rapporto con Gesù: questo è Giuseppe. Andate da Giuseppe. Da Giuseppe il cristiano impara che cosa significa essere di Dio ed essere pienamente inserito tra gli uomini, santificando il mondo. Frequentate Giuseppe e incontrerete Gesù. Frequentate Giuseppe e incontrerete Maria, che riempì sempre di pace la bottega di Nazaret.
Documento stampato da https://escriva.org/it/es-cristo-que-pasa/nella-bottega-di-giuseppe/ (12/11/2024)